Monday, March 04, 2013

WAGNER - L'OLANDESE VOLANTE DER FLIEGENDE HOLLAENDER



 TEATRO COMUNALE DI BOLOGNA


Richard  WAGNER


L'OLANDESE VOLANTE


DER FLIEGENDE HOLLAENDER


In occasione degli allestimenti al

TEATRO ALLA SCALA DI MILANO

TEATRO COMUNALE DI BOLOGNA 

TEATRO SAN CARLO DI NAPOLI


è disponibile il libretto completo dell'opera, 

in italiano e in tedesco, con note critiche, 

immagini e sintesi del soggetto.


Dispongo anche della versione 

E-BOOK

PER

 KINDLE  / E-PUB / PDF


Il libretto, 80 pagg., formato 21 x 15 cm, 

in italiano (traduz. Manacorda) con testo a fronte in tedesco

(nel post precedente vediamo la copertina, 

sotto il manifesto della Scala), 


può essere richiesto all'editore:

FLYING DUTCHMAN  

Print e Music

Ferrara

flyingdutchman.pm@libero.it


Qui sotto, immagini dell'allestimento di Bologna 2013





Sunday, February 17, 2013

WAGNER. L'OLANDESE VOLANTE - DER FLIEGENDE HOLLAENDER


R. WAGNER:

L'OLANDESE VOLANTE

DER FLIEGENDE HOLLAENDER

In occasione degli allestimenti dell'opera 

a: 


TEATRO ALLA SCALA DI MILANO


   TEATRO COMUNALE DI BOLOGNA


          TEATRO SAN CARLO DI NAPOLI



è disponibile il libretto completo dell'opera, 

in italiano e in tedesco, con note critiche, 

immagini e sintesi del soggetto.


Dispongo anche della versione 

e-book

per Kindle ed e-pub


Il libretto, 80 pagg., formato 21 x 15 cm, 

in italiano (traduz. Manacorda) con testo a fronte in tedesco

(sotto il manifesto della Scala vediamo la copertina), 

può essere richiesto all'editore:


FLYING DUTCHMAN  

Print e Music

Ferrara

flyingdutchman.pm@libero.it














































Saturday, April 07, 2012

FEROCE SALADINO: M@il di cuore, m@il d'amore





Sopra l'immagine c'è il link a ilmiolibro.it dove potete leggere le prime 32 pagine del libro, M@il di cuore, m@il d'amore (premiato con il secondo posto per la narrativa del premio Nicolini di Ferrara nel 2010)
A quel primo libro sono seguiti altri, tutti pubblicati dall'Editore Flying Dutchman di Ferrara:


Feroce Saladino: La soave ambrosia e la broda dei porci


Qui potete leggere le prime pagine: 


http://reader.ilmiolibro.kataweb.it/v/808801/
La_soave_ambrosia_e_la_broda_dei_porci#!


Anonimo Ferrarese: Diario di un turista sessuale mancato
Le prime pagine: 


http://reader.ilmiolibro.kataweb.it/v/808055/
Diario_di_un_turista_sessuale_mancato#!


Dino Finetti: La città del disamore - Piccola storia dell'amore a Ferrara


Di questo esiste un video introduttivo. Ecco il link e il codice:


http://www.auam.it/index.php?option=com_hwdvideoshare&task=viewvideo&Itemid=60&video_id=18





Autori Vari: Pagine in vista (con 2 racconti di Dino Finetti)


Dino FinettiSei personaggi in cerca d'amore
Il primo racconto:


http://reader.ilmiolibro.kataweb.it/v/798215/
Sei_personaggi_in_cerca_d'amore#!


Per informazioni e acquisti (libri, versioni e-book e altri formati), contattare:


Flying Dutchman  di Dino Finetti   dino.finetti@libero.it

Friday, May 27, 2011

I DUE FIGARO - Saverio Mercadante RAVENNA FESTIVAL 2011




In occasione della prima ripresa moderna dell´opera di Mercadante, I DUE FIGARO, che andrà in scena a fine giugno nell´ambito del Ravenna Festival - direzione di R. Muti - ho recuperato e stampato il libretto completo, scritto da Felice Romani per la prima rappresentazione dell´opera per la musica di Michele Carafa.
Il libretto, integrale, si basa sul testo stampato a Milano nel 1820, utilizzato da diversi compositori fino al 1840. Comprende inoltre una dettagliata sintesi della trama, le varianti al testo, frammenti critici e un commento storico-letterario.

Tutto questo in un volumetto di 108 pagg., al prezzo di copertina di € 7,50, sconto del 33% per un netto a copia di € 5,00. Per le prenotazioni, inviare una mail a:
                                                   dino.finetti@libero.it

                                                     cell. 3491248728




Ecco uno stralcio dalle note che seguono il testo:


Due Figaro... tre... oppure quattro?

Insolita questa commedia di Felice Romani, ottimo e prolifico  “poeta” al servizio dell’opera, che da par suo ha sfornato oltre un centinaio di libretti per musicisti contemporanei del calibro di Bellini, Donizetti, Mercadante, ma anche Rossini e il giovane Verdi.
L’argomento, innanzi tutto. Prima che Beaumarchais terminasse la sua trilogia di Figaro, un attore della compagnia parigina che rappresentava Le mariage de Figaro, il cittadino Honoré-Francois Richaud, detto Martelly, (1751-1817), per rispondere alle critiche rivoltegli da Beaumarchais in persona in merito alla sua interpretazione di Almaviva, elaborò un testo teatrale con gli stessi personaggi, Les deux Figaro ou Le sujet de comédie, andato in scena per la prima volta a Parigi nel 1790, poco dopo lo scoppio della rivoluzione francese e rimasto in cartellone fin quasi alla fine dell’avventura napoleonica (1813).
Il musicista Michele Carafa de Colobrano (1787-1872), autore partenopeo di nascita e di formazione, grande  amico ed epigono di Rossini, assistette probabilmente a una di quelle rappresentazioni durante il primo soggiorno a Parigi (1806). Quindici anni dopo, nel 1820, andava in scena al Regio Teatro alla Scala il melodramma: I due Figaro o sia Il soggetto di una commedia, su versi del Romani. La presente pubblicazione riproduce il testo stampato a Milano in concomitanza di quel primo allestimento. Lo stesso libretto verrà in seguito utilizzato da altri compositori: Giovanni Panizza (1824), Dionisio Brogialdi (Barcellona, 1825), Saverio Mercadante (vedi più sopra l’articolo riguardante il ritrovamento a Madrid della partitura completa, datata 1826) e infine Giovanni Antonio Speranza (Torino, 1839, ma preceduta da una “prima” a Napoli, 1838); tutti, tranne Mercadante, musicisti ancor più oscuri e dimenticati del Carafa.

Della versione di Mercadante, attendiamo la prima ripresa moderna diretta da Riccardo Muti, a Salisburgo e a Ravenna (giugno 2011).

Inaspettatamente, dei versi del Romani per il melodramma musicato da Giovanni Antonio Speranza, si trovano numerose ristampe, in Italia ma anche in Spagna, che testimoniano evidentemente una certa popolarità e/o diffusione dell’opera fra il 1839 e il  1844, quando la spinta eversiva della Rivoluzione francese in Martelly e in seguito gli echi libertari nel clima politico italiano intorno al 1820, quando vedeva la luce il melodramma di Felice Romani-Carafa, si erano spenti.

[…]

I personaggi.

Figaro, divenuto una figura mitica, la maschera della furbizia e dell’inventiva, qui è un essere meschino. “All’idea di quel metallo” soggiace tutta la sua umanità e fantasia. Mira solo ai soldi e non si fa alcuno scrupolo dei sentimenti di Inez e della Contessa; è in malafede anche nei riguardi della propria sposa, Susanna che evidentemente, 12 anni dopo le nozze, non sopporta più e rappresenta solo un ostacolo alle proprie mire. Significativa anche la sua misoginia che si esprime nei versi:    
Il complotto è sventato... o donne audaci!
Voi congiurar!... tremate... io solo impero…
Quel che voglio sarà... voi tornerete
A strisciar come prima, o vili insetti.   [pag. 34]

Il Conte di Almaviva è ormai un vecchio balordo e cocciuto, facile preda di imbroglioni e servette che sanno il fatto loro. Ha assunto i panni di una tipica figura dell’opera buffa napoletana (ma anche del teatro di Goldoni): il padre autoritario che vuole imporre un matrimonio d’interesse alla figlia, ma anche il tutore geloso, gabbato nella sua “inutile precauzione” di evitare alla pupilla contatti con possibili spasimanti. Il conte si è trasformato nel suo avversario di un tempo, Bartolo, e gli si è spenta anche la libido, la voglia di trasgredire, motore dell’azione nelle Nozze di Figaro di Mozart-Da Ponte: non approfitta nemmeno dell’amata di un tempo, Susanna, quando lei invoca il suo perdono baciandogli devotamente la mano. È un vecchio rassegnato, cinico e deluso dall’amore, che fa queste considerazioni:
Che mai giova al nostro bene
Maritarsi per amor?
Tosto o tardi estingue Imene
Dell’amore il primo ardor.
Come un dì Rosina amai!
Come anch’essa un dì m’amò!
Finalmente la sposai…
L’amo ancora? Non lo so.
O dolci trasporti – di teneri affetti,
Se fuggon sì rapidi – i vostri diletti,
Felice quell’anima – che mai vi provò.   [pag. 16]

[…]

Il grande assente, alfine, in questa commedia, è proprio l’amore, pur essendo il (convenzionale) principio ispiratore di questo genere teatrale e di quasi tutto il teatro tout court, in prosa come in musica.

[…]


Inez e Cherubino, infine, i due amanti, non si concedono alcun trasporto, alcun abbandono (forse perché impediti dal procedere implacabile degli avvenimenti). Inez è troppo acerba e inesperta, e Cherubino, plasmato dalla rude vita militare, ha pure lui una filosofia di vita, sebbene mitigata dalla giovane età,  pragmatica e cinica; l’amore è una palestra di inganni, dove trionfa chi è più abile e scaltro:
Amor, che i timidi – audaci rendi,
Con noi discendi – a congiurar.
Colle tue solite –  astuzie e frodi
Ne insegna i modi – di trionfar.     [pag. 27]


Tutto sommato una commedia composta di splendidi versi, I due Figaro, dove l’amore, con “astuzie e frodi” ha l’ultima parola. Ma sembrano più parole di circostanza, una formula retorica, come lo scontato lieto fine delle favole, più che una genuina fiducia nella forza del sentimento.

     Da tanti imbrogli e palpiti
Alfin respiri ogni alma:
----
Amor che al nodo è pronubo
Più non la turberà.               [pag. 79]

Il nodo matrimoniale, coronamento dell’amore, suggella la fine di ogni turbamento dell’anima, ma anche di ogni passione.
                                                                        
                                                                                                                                   Dino Finetti

Labels:

Tuesday, January 18, 2011

I VAMPIRI ALL'ANGOLO DELLA STRADA - I

 

I

Basta. Non se ne può più. Le librerie, le bancarelle e anche gli scaffali del reparto libri nei supermercati grondano di romanzi, volumi, racconti di vampiri.
Raccolte formato “Mammuth” della Newton-Compton, Cronache, Interviste, Diari, Crepuscoli, Eclissi, Nuove Lune, Promessi morsi, Promessi vampiri e via sanguinando è una vera emorragia. È ora di darci un taglio: finiamola con questi sciupafemmine non-morti e quindi inestinguibili, altrimenti ci porteranno via anche le poche ragazze-lettrici ancora non vampirizzate da tali pallidi libertini, ultima inflazionata versione domestica di una gloriosa stirpe di nobili succhiasangue. Piantiamogli un bel paletto acuminato in mezzo al cuore o, meglio ancora, diamo alle fiamme l’inutile, pericolosa montagna di libri degenerati, manifestazione di un’editoria consumistica e massificata; applichiamo ciò che la fantasia di Ray Bradbury aveva escogitato in Fahrenheit 451 e in un mondo finalmente liberato da queste insane letture, dedichiamoci ai classici, alla vera letteratura, a svaghi più sani e stimolanti.
Ma se proprio non si riesce a debellare il morboso vizio, se non si riesce a distogliere lo sguardo da queste copertine patinate, dove impera la notte e da cui fuoriesce un rivolo di sangue umano; se non si ha la forza di resistere alla frenesia erotico-letteraria che spinge le pudiche fanciulle a lasciarsi irretire da questi tenebrosi personaggi, almeno cerchiamo di educare i loro gusti, facciamo loro conoscere i vampiri D.O.C., i protagonisti del genere gotico, coloro da cui è nata la leggenda, i veri Dracula e principi delle tenebre.
Torniamo alle origini. Tutto ha inizio, come in un vero racconto gotico, in una notte buia e tempestosa, presso la villa Diodati, sul lago di Ginevra. 



E’ il giugno del 1816. A causa di un tempo insolitamente freddo e piovoso, due coppie sono costrette a trascorrere le vacanze al chiuso. Si tratta dei poeti George Byron e Percy Bysshe Shelley con le reciproche amanti, più un “quinto incomodo”, il ventunenne John William Polidori, medico e segretario personale di Byron. Il Lord inglese, che evidentemente si sentiva in colpa per aver invitato gli amici a raggiungerlo nella villa e a dividere con lui quella forzata inattività, lancia l’idea di scrivere ciascuno un racconto terrificante. Mary Wollstonecraft, divenuta quello stesso anno Sig.ra Shelley, concepisce in quella occasione il celeberrimo Frankenstein, ovvero il Prometeo moderno, vero caposaldo della letteratura dell’orrore. Byron compone un frammento in cui due compagni di viaggio giungono in Grecia; qui, uno dei due – che si rivelerà essere un vampiro – in punto di morte lega a sé l’amico con uno strano giuramento.

Proprio su questo abbozzo, Polidori elaborò in seguito il racconto Il Vampiro, pubblicato nel 1819, che ebbe grande popolarità in Europa e aprì la strada al più noto capolavoro del genere, il Dracula di Bram Stoker, pubblicato nel 1897. 



Queste e altre notizie si possono trovare su Wikipedia alle voci “John Polidori” e “Vampiro”; e anche in altri siti:


Ora, però, vorrei proporre alcune personali ipotesi sulla vicenda, per far luce sullo strano rapporto che legava Polidori, uomo di lettere e precoce medico che coltivava strane fantasie riguardo veleni, misture letali e misteriose sostanze, all’irrequieto poeta romantico Lord Byron. Questi lo aveva portato con sé nelle sue peregrinazioni, assumendolo come segretario personale, ma la forzata convivenza a Villa Diodati mise evidentemente allo scoperto la loro incompatibilità di carattere tanto che il giovane medico si trovò licenziato dopo pochi mesi, a fine agosto 1816. Polidori nutriva nei riguardi del fascinoso ma sregolato poeta romantico, protagonista di scandali, carattere ribelle e inquieto, un rapporto di amore-odio. Byron, invece, mal sopportava la pedanteria, la fatua pretenziosità, le stravaganze mostrate dal suo accompagnatore per il quale aveva coniato il nomignolo di “Polly-Dolly”, cioè la “bambolina” Polly, volendo intendere un fatuo damerino (oggi forse lo chiameremmo “un fighetto” o, peggio, “una signorina”) oppure un irritante idealista senza nerbo?

Polly è anche il nome della protagonista femminile nella Beggar’s Opera (ovvero L’opera del mendicante, 1728) di John Gay, “ballad-opera” di feroce satira e denuncia sociale da cui B. Brecht ricavò la sua Opera da tre soldi. Polly, nella pièce di Gay, è una bella ragazza, di pessima famiglia, sinceramente innamorata del bandito Macheath – che ha sposato segretamente – malavitoso dongiovanni dedito al gioco, all’alcool e alle puttane.

Labels:

I VAMPIRI ALL'ANGOLO DELLA STRADA - II

II

Il racconto di Polidori, pubblicato nel 1819, sembra aver origine dal rancore di una delusione amorosa, quella del “mollato” che si sfoga raccontando peste e corna del suo ex. Infatti il personaggio diabolico nelle cui sembianze prendono forma le leggende dei vampiri, Lord Ruthven, è troppo scopertamente simile a Lord Byron. Anche la scelta del nome è indicativa: nel 1816 era uscito il romanzo Glenarvon opera di Caroline Lamb, amante ferita e rifiutata da Byron, dove al poeta è affibbiato il ruolo del crudele protagonista, Ruthven Glenarvon, assassino delle sue amanti, punito con la dannazione eterna ma attivo anche da morto come spettro molestatore delle sue vittime.



Il vampiro di Polidori è un dandy aristocratico, ben inserito nell’alta società londinese, incallito giocatore, personalità inquietante e magnetica, fascinoso affabulatore, insolitamente pallido, con gli occhi di ghiaccio e inespressivi e, ovviamente, ammaliatore di belle donne. Non dichiaratamente malvagio o depravato, ma imperscrutabile, avvolto da un alone di mistero, è il tipico bel tenebroso da cui tutte le femmine sono attratte, sia quelle “che fanno delle virtù domestiche il vanto del proprio sesso”, sia “quelle che lo disonorano con i loro vizi”.
Il bel giovane Aubrey (in cui Polidori, inconsciamente proietta se stesso), orfano, erede, con la sorella di una grande fortuna, con un alto senso dell’onore e della virtù, romantico idealista, convinto “che i sogni dei poeti” rappresentino “la realtà della vita”, è inevitabilmente attratto dal fascino negativo che promana da Lord Ruthven-Byron (classica condizione dell’immaturo, anche sul piano sessuale, che si lega morbosamente al più esperto poiché questi potrebbe farlo uscire dalla sua inettitudine) e insieme partono per l’Europa.
Nel corso del viaggio, che potrebbe costituire un’occasione di istruttive esperienze, anche erotiche per Aubrey-Polidori, il giovane rampollo si irrigidisce nel suo moralismo sessuofobo, rileva il cinismo, i vizi e la mancanza di scrupoli del compagno di viaggio che non biasima direttamente, ma da cui si separa dopo aver sventato l’ennesimo suo tentativo di traviare una brava ragazza.
Aubrey prosegue da solo per la Grecia, dove avrebbe la possibilità di sedurre un’incantevole e delicata creatura, Iante, ma invece di trattenersi piacevolmente con lei, va in giro ad esplorare i ruderi della civiltà classica. Una sera, attraversando un bosco che le leggende locali affermano essere infestato dai vampiri, un diabolico essere uccide proprio la fanciulla di cui si era innamorato e misteriosi segni sul suo corpo e sulla gola fanno sospettare l’opera di un vampiro. Il giovane cade preda di una febbre violentissima, poi si riprende e continua il viaggio con Lord Ruthven, con cui si è nel frattempo riappacificato.
I due sono assaliti dai briganti; Ruthven viene ferito a una spalla e ben presto muore, ma fa in tempo a impegnare Aubrey in uno strano giuramento: non dovrà mai rivelare, per un anno più un giorno, per nessuna ragione e ad alcun essere, quello che sa dei misfatti o della morte del Lord, qualunque cosa accada. E il giovane giura.
Ciò risulterà fatale a lui stesso e alla giovanissima sorella la quale convola a nozze proprio con Ruthven redivivo, soddisfacendo la notte stessa, anziché la passione dello sposo, “la sete di un VAMPIRO!”, un giorno prima della scadenza del giuramento che, per l’alto senso dell’onore, il fratello non poteva infrangere.     
Il racconto si sviluppa con un crescendo di situazioni e di eventi anche cruenti che Aubrey interpreta come opera del vampiro Ruthven, ma non vi è mai una constatazione diretta e oggettiva. Si tratta di un processo indiziario che un abile avvocato, l’avvocato del diavolo-vampiro, potrebbe tranquillamente confutare come opera di fantasia di una mente malata, di un giovane roso dall’invidia per i successi dell’amico più navigato, un frustrato affetto da mania di persecuzione.



Due anni dopo la pubblicazione del Vampiro, dopo aver tentato di entrare in una comunità religiosa e aver scritto l’ambizioso poema The Fall of the Angels, ispirato al Paradiso perduto di J. Milton, Polidori si suicida con l’acido prussico (cioè il cianuro, una sua ossessione). Aveva 26 anni. 
                                                                                               
                              Il feroce Saladino  

Labels:

Friday, August 20, 2010

AVATAR XII - Fine

XII


            Durante il tragitto fra il Bois de Boulogne e la Rue Regard, Octave de Saville disse al dottor Cherbonneau:
            «Mio caro dottore, ancora una volta metterò alla prova la sua scienza: le nostre anime devono tornare nella loro rispettiva sede. Per lei non dev'essere difficile. Spero che il signor conte Labinski non gliene vorrà per avergli fatto scambiare un palazzo con una capanna e aver dovuto albergare per qualche ora la sua brillante personalità nel mio povero corpo. D'altronde, lei ha tali poteri da non temere vendette».
            Dopo aver fatto un cenno di assenso, il dottor Balthazar Cherbonneau disse: «L'operazione sarà molto più semplice dell'altra volta: gli impercettibili filamenti che trattengono l'anima al vostro corpo sono stati spezzati da poco e non hanno ancora avuto tempo di riallacciarsi. Le vostre volontà non frapporranno quell'ostacolo che l'istintiva resistenza del magnetizzato oppone al magnetizzatore. Il signor conte vorrà perdonare a un vecchio scienziato come me se non ha potuto resistere al piacere di effettuare un esperimento per il quale non si trovano molti soggetti, poiché in fin dei conti il tentativo è servito solo a confermare in modo inoppugnabile una virtù che spinge la sensibilità fino alla divinazione e trionfa laddove ogni altro avrebbe ceduto le armi. Potrà considerare questa passeggera trasformazione come un sogno bizzarro, e forse in seguito non le dispiacerà aver provato l'insolita sensazione che pochissimi uomini hanno conosciuto, di aver albergato in due corpi. La metempsicosi non è una scienza recente, ma prima di trasmigrare in un'altra esistenza le anime bevono alla coppa dell'oblio e non tutti possono ricordare, come Pitagora, di aver assistito alla guerra di Troia».


            «Il vantaggio di rientrare in possesso della mia individualità», rispose garbatamente il conte, «equivale alla contrarietà di esserne stato espropriato, e ciò sia detto senza voler offendere il signor Octave de Saville, quale sono tuttora e presto non sarò più».
            Octave sorrise con le labbra del conte Labinski a quella frase che gli giungeva solo attraverso un involucro estraneo, e il silenzio regnò fra i tre personaggi ai quali l'anomalia della situazione rendeva difficile ogni conversazione.
            Il povero Octave pensava alla sua speranza svanita, e i suoi pensieri, bisogna pure ammetterlo, non erano rosei. Come tutti gli amanti respinti si chiedeva perché non fosse amato come se l'amore avesse un perché! - La sola ragione che se ne possa dare è il perché no, risposta logica nella sua testarda laconicità, che le donne oppongono a tutte le domande imbarazzanti. Tuttavia si riconosceva vinto e sentiva che la molla vitale, per un istante ricaricata in lui dal dottor Cherbonneau, era di nuovo spezzata e gemeva nel suo cuore come quella di un orologio caduto a terra. Octave non avrebbe voluto dare alla madre il dolore del suo suicidio e cercava un posto dove spegnersi silenziosamente del suo male a cui la scienza ignara non era in grado di dare un nome plausibile. Se fosse stato pittore, poeta o musicista avrebbe cristallizzato il suo dolore in qualche capolavoro, e Prascovia, di bianco vestita, aureolata di stelle, simile alla Beatrice di Dante, avrebbe aleggiato sul suo estro creativo come un angelo luminoso. 



Ma come si è detto all'inizio della nostra storia, benché colto e raffinato, Octave non era uno di quegli spiriti eletti che lasciano traccia del loro passaggio su questa terra. Anima oscuramente sublime, non sapeva che amare e morire.
              La carrozza entrò nel cortile del vecchio edificio della Rue du Regard, dal cui selciato spuntava un'erba verde che portava l'impronta dei passi dei visitatori, e che gli alti muri grigi delle costruzioni inondavano di ombre fredde come quelle proiettate dalle arcate dei chiostri. Il Silenzio e l'Immobilità vegliavano sulla soglia come due statue invisibili per proteggere la meditazione del saggio.
         Dopo che Octave e il conte furono scesi, il dottore saltò giù dal predellino più agilmente di quanto fosse logico aspettarsi da una persona di età avanzata; rifiutando di appoggiarsi al braccio che il palafreniere gli offriva con quella cortesia che i lacché delle grandi famiglie ostentano nei confronti delle persone deboli e anziane.
             Appena la doppia porta si fu richiusa alle loro spalle, Olaf e Octave si sentirono avvolti dalla calda atmosfera che ricordava al dottore quella dell'India e nella quale solo lui riusciva a respirare, mentre appariva soffocante a chi non si fosse arrostito come lui al sole tropicale. Le incarnazioni di Visnù seguitavano a fare smorfie dalle loro cornici più bizzarre alla luce del sole che a quella artificiale. Siva, il dio azzurro sogghignava sul suo zoccolo, e Durga, mordendosi le labbra carnose con i suoi denti di cinghiale, sembrava scuotesse il suo rosario di teschi. L'appartamento aveva la stessa aria misteriosa e magica.




           














          
Il dottor Cherbonneau condusse i due uomini nella stanza dove era stata effettuata la prima trasformazione, fece girare il disco di vetro della macchina elettrica, agitò le asticciole di ferro della tinozza mesmerica, aprì le bocche dell'aria calda per far salire rapidamente la temperatura, lesse due o tre righe su papiri così antichi da far pensare a vecchie scorze sul punto di polverizzarsi, e dopo qualche minuto disse a Octave e al conte:
              «Signori, eccomi a voi. Volete cominciare?».
            Mentre il dottore era intento ai suoi preparativi, pensieri inquietanti passavano per la mente del conte.
            «Quando sarò addormentato, che farà della mia anima questo vecchio mago con la faccia di scimmia, che potrebbe anche essere il diavolo in persona? La restituirà al mio corpo o la porterà con sé all'inferno? Questo scambio che dovrebbe rendermi ciò che mi appartiene, non sarà magari un machiavellico espediente per operare una stregoneria di cui mi sfugge il senso? La mia situazione comunque non potrebbe certo peggiorare. Octave possiede il mio corpo, e come diceva giustamente stamani, e io lo rivendicassi con il mio viso di adesso, mi farei rinchiudere in manicomio. Se avesse voluto sbarazzarsi definitivamente di me, gli sarebbe bastato affondare la punta della spada: ero disarmato, alla sua mercé. La giustizia degli uomini non poteva intervenire: le formalità del duello erano state perfettamente rispettate e tutto si era svolto secondo le consuetudini. Suvvia! Pensiamo a Prascovia e niente terrori puerili! Facciamo ricorso all'ultimo mezzo che mi resta per riconquistarla!» E come Octave, prese l'asticella di ferro che il dottor Balthazar Cherbonneau gli porgeva.



            Folgorati dai conduttori metallici che contenevano abbondante fluido magnetico, i due giovani piombarono poco dopo in un stato di sopore così profondo che chiunque non fosse stato preavvertito li avrebbe creduti morti. Il dottore fece i gesti rituali, pronunciò le stesse sillabe della prima volta e subito dopo sopra Octave e il conte apparvero in un tremolio luminoso due piccole scintille: il dottore riportò nella sua primitiva dimora l'anima del conte Olaf Labinski. Con rapido volo essa seguì il gesto del magnetizzatore.



            Nel frattempo, l'anima di Octave si allontanava lentamente dal corpo di Olaf, e invece di raggiungere il suo, si innalzava, si innalzava come se fosse stata lieta di essere libera, e sembrava che non pensasse affatto a rientrare nella sua prigione.



            Il dottore ebbe pietà di quella Psiche dalle ali palpitanti e si chiese se fosse un bene riportarla verso questa valle di lacrime. In quell'attimo di esitazione, l'anima seguitò a salire. Ricordandosi del proprio compito, il signor Cherbonneau ripeté con accento più imperioso l'irresistibile monosillabo e fece un gesto fulminante per imporre il suo volere. Ma la piccola luce tremolante era già fuori dalla sua sfera d'attrazione e scomparve attraverso il vetro più alto della finestra.
            Il dottore rinunciò a ogni sforzo che sapeva superfluo e svegliò il conte. Questi vedendosi in uno specchio con quelli che erano sempre stati i suoi tratti, gridò di gioia, lanciò un'occhiata sul corpo sempre immobile di Octave come per assicurarsi che si era definitivamente liberato da quell'involucro, e si precipitò fuori dopo aver salutato il dottor Cherbonneau con un cenno della mano.
            Qualche istante dopo si udì nell'androne il sordo rotolio di una carrozza e il dottore rimase solo faccia a faccia con il cadavere di Octave de Saville.
            «Per la proboscide di Ganesa!», esclamò all'allievo del bramino di Elefanta quando il conte se ne fu andato. «Guarda un po' che incresciosa situazione! Ho aperto la porta della gabbia, l'uccello è volato via ed eccolo già fuori dalla sfera di questo mondo, così lontano che perfino il sannyasi Brahma-Logum non potrebbe riprenderlo. E intanto io resto con un cadavere sulle braccia. Posso anche dissolverlo in un bagno corrosivo così potente da non lasciarne nemmeno un atomo, oppure farne in poche ore una mummia di faraone come quelle rinchiuse nei sarcofagi decorati di geroglifici, ma poi comincerebbero a fare inchieste, a perquisirmi le casse, e io verrei sottoposto a mille seccanti interrogatori...».
            A questo punto, al dottore venne in mente un'idea luminosa: afferrò una penna e tracciò rapidamente alcune righe su un foglio di carta che poi chiuse nel cassetto del tavolo. Sul foglio c'era scritto:
            «Non avendo né parenti stretti né collaterali, lascio in eredità tutti i miei beni al signor Octave de Saville per il quale nutro un affetto particolare, a condizione che egli devolva un lascito di centomila franchi all'ospedale brahaminico di Ceylon per gli animali vecchi, deboli o malati, che assicuri una rendita vitalizia di milleduecento franchi al mio domestico indiano e al mio domestico inglese, che affidi alla biblioteca Mazarine il manoscritto delle leggi di Manù».
            Questo testamento di un vivo a favore di un morto non è certamente uno dei particolari meno curiosi della nostra storia reale, per quanto inverosimile appaia. Ma si tratta di una stranezza facilmente spiegabile.
            Il dottore toccò il corpo ancora caldo di Octave de Saville, con aria disgustata si guardò nello specchio il viso rugoso, scuro e ruvido come una pelle di zigrino, e mentre accennava su di sé il gesto con cui ci si sbarazza di un vecchio abito quando il sarto ne porta uno nuovo mormorò la formula del sannyasi Brahma-Logum.



            Immediatamente il corpo del dottor Balthazar Cherbonneau cadde come fulminato sul tappeto e quello di Octave de Saville si rialzò forte scattante, pieno di vita.
            Per qualche minuto Octave Cherbonneau rimase in piedi davanti a quella spoglia magra, ossuta e livida, che ormai svigorita e senz'anima mostrò in poco tempo i segni estremi della senilità, assumendo l'aspetto di un cadavere.



            «Addio, povero brandello umano, miserevole straccio con gomiti bucati e la trama lisa, che ho trascinato per settant'anni attraverso le cinque parti del globo! Mi hai servito a dovere e non ti lascio senza un certo rimpianto. Vivendo a lungo insieme, ci si abitua l'uno all'altro, ma con questo giovane involucro presto irrobustito dalla mia scienza, potrò studiare, lavorare, leggere ancora qualche parola del gran libro, senza che la morte la interrompa al paragrafo più interessante dicendo: "Ora basta"».
            Dopo aver rivolto a se stesso quest'orazione funebre, Octave-Cherbonneau uscì con passo tranquillo per andare a prender possesso della sua nuova esistenza.
            Nel frattempo il conte Olaf Labinki era tornato alla villa ed aveva subito fatto chiedere se la contessa poteva riceverlo.
            La trovò seduta su un sedile di muschio della serra in mezzo a un'autentica foresta di piante esotiche e tropicali. Le vetrate semisollevate lasciavano entrare un'aria tiepida e luminosa. Stava leggendo Novalis, uno degli scrittori più sottili, rarefatti e più immateriali che siano stati generati dallo spiritualismo tedesco. La contessa non amava i libri che descrivono la vita con toni violenti e realistici: la vita le sembrava qualcosa di un po' troppo volgare, a forza di vivere in un mondo fatto di eleganza, di amore e di poesia.




            Lasciò cadere il libro e sollevò lentamente lo sguardo verso il conte. Temeva di ritrovare negli occhi neri del marito quello sguardo ardente, tempestoso, carico di mistero che l'aveva turbata così penosamente e che le sembrava, folle apprensione idea stravagante, lo sguardo di un altro!
            Negli occhi di Olaf risplendeva una gioia serena, ardeva il fuoco tranquillo di un amore casto e puro; l'anima estranea che ne aveva cambiato l'espressione era volata via per sempre. Prascovia riconobbe senza esitare il suo adorato Olaf, le sue guance diafane si colorirono di un subitaneo rossore di gioia. Benché ignorasse le trasformazioni operate dal dottor Cherbonneau, la sua acuta sensibilità aveva intuito quei cambiamenti pur senza rendersene conto.
            «Che cosa stai leggendo, mia cara Prascovia?», chiese raccogliendo sul muschio il libro rilegato di marocchino azzurro. «Ah! La storia di Heinrich von Ofterdingen. Proprio il libro che sono andato a prenderti a spron battuto fino a Mohilev, un giorno in cui a tavola avevi espresso il desiderio di averlo. A mezzanotte era sul suo tavolino, accanto alla lampada. Perfino Ralph era ansimante!».

            
           «E io ti ho detto che mai più avrei espresso il benché minimo desiderio davanti a te. Tu sei come quel grande di Spagna che pregava la sua amante di non guardare le stelle perché non poteva offrirgliele».
            «Se tu ne guardassi una», rispose il conte, «tenterei di salire in cielo per andare a chiederla a Dio».
            Mentre ascoltava il marito, la contessa scostò una ciocca ribelle dei capelli che scintillava come una fiamma in un raggio d'oro. Il movimento aveva fatto scivolare la manica e denudato il bel braccio. Al polso scintillava la lucertola d'oro costellata di turchesi che portava il giorno fatale in cui Octave l'aveva vista alle Cascine.



            «Che paura ti fece una volta questa povera piccola lucertola che uccisi con un bastoncino, quando dietro le mie insistenti preghiere scendesti per la prima volta in giardino! Ne feci fare un braccialetto d'oro con qualche pietra, ma anche come gioiello continuava a inorridirti e ci volle del tempo perché tu ti risolvessi a portarlo».
            «Ora mi ci sono abituata ed è il gioiello che preferisco perché è legato a un ricordo molto caro».
            «Sì», riprese il conte, «quel giorno decidemmo che l'indomani avrei chiesto ufficialmente la tua mano a tua zia».
            La contessa, che ritrovava lo sguardo del vero Olaf, si alzò, rassicurata inoltre da tutti quei particolari intimi, gli sorrise, lo prese sotto braccio e insieme fecero qualche passo nella serra, strappando via via un fiore con la mano libera e mordendone i petali con le fresche labbra, come la Venere dello Schiavone che mangia le rose.
            «Visto che oggi hai così buona memoria», disse gettando il fiore che aveva strappato con i suoi denti di perla, «devi aver ritrovato anche l'uso della lingua materna... che ieri avevi dimenticato».
            «È quella che la mia anima parlerà in cielo per dirti che ti amo, se in paradiso le anime conservano un linguaggio umano!», rispose il conte in polacco.
            Continuando a camminare, Prascovia posò dolcemente il capo sulla spalla di Olaf.
            «Cuore mio», mormorò, «è così che ti amo. Ieri mi hai fatto paura, e ti ho fuggito come un estraneo».
            L'indomani Octave de Saville, in cui viveva lo spirito del vecchio dottore, ricevette una lettera listata a lutto, che lo pregava di assistere al servizio funebre e alla sepoltura del signor Balthazar Cherbonneau.



            Il dottore, sotto la sua nuova apparenza, seguì le proprie vecchie spoglie al cimitero, si vide seppellire, ascoltò con una compunzione molto ben simulata i discorsi pronunciati sulla sua fossa, che deploravano l'irreparabile perdita subita dalla scienza. Dopo di che tornò in rue Saint-Lazare e attese l'apertura del testamento che aveva scritto a proprio favore.
            Quello stesso giorno si leggeva fra i fatti di cronaca dei giornali della sera:
            «Il dottor Balthazar Cherbonneau, noto per i lunghi soggiorni in India, per le sue conoscenze filologiche e le sue stupefacenti terapie, ieri è stato trovato morto nel suo studio. Il minuzioso esame del corpo esclude totalmente l'idea di un delitto. Probabilmente il signor Cherbonneau è stato vittima di un eccessivo impegno intellettuale o di qualche audace esperimento. Da un testamento olografo scoperto nella sua scrivania, pare che il dottore abbia lasciato alla biblioteca Mazarine preziosissimi manoscritti e abbia nominato suo erede universale un giovane appartenente a una distinta famiglia, un certo signor Octave de Saville.

FINE

Labels: